Ogni insieme di diritti nasce da un conflitto che si crea quando qualcuno compie o vuole compiere qualcosa che ha delle conseguenze su altre persone, con il favore di alcune di queste e l’opposizione di altre. Con o senza una lotta, si giunge ad un accordo o a un compromesso con il quale si definiscono i rispettivi diritti. Quello che voglio evidenziare in modo particolare è che la soluzione è essenzialmente la trasformazione del conflitto da un problema politico a una transazione economica. Una transazione economica è un problema politico risolto. L’economia ha conquistato il titolo di regina delle scienze sociali scegliendo come suo dominio quello dei problemi politici risolti. (Abba P. Lerner, 1972, The Economics and Politics of Consumer Sovereignty)

Nel lungo periodo, se non saremo davvero tutti morti, saremo ancora nel breve periodo. (Abba P. Lerner, 1962, Own Rates and the Liquidity Trap)

Affinché il sistema capitalista funzioni efficacemente i prezzi devono sostenere i profitti. (Hyman P. Minsky, 1986, Stabilizing an Unstable Economy)

Res tantum valet quantum vendi potest. (cfr. Karl Pribram, 1983, A History of Economic Reasoning)

L'unico rimedio per la disoccupazione è avere una banca centrale sotto il controllo pubblico. (cfr. John Maynard Keynes, 1936, The General Theory of Employment, Interest and Money)

We have this endearing tendency in economics to reinvent the wheel. (Anthony P. Thirlwall, 2013, Economic Growth in an Open Developing Economy, p.33)

Amicus Plato, sed magis amica veritas.


N.B. Nel blog i link sono indicati in rosso: questo è un link.

domenica 26 agosto 2012

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Il Trattato di Maastricht e le sue conseguenze


 

Wynne Godley

Maastricht and All That

London Review of Books - Vol. 14 No. 19,· 8 October 1992, pp. 3-4.


Il Trattato di Maastricht e le sue conseguenze

[ Traduzione di Giorgio D.M. ]

Moltissime persone in tutta Europa si sono improvvisamente accorte di non sapere praticamente nulla del Trattato di Maastricht proprio nel momento in cui sono divenute consapevoli del fatto che esso potrebbe causare enormi cambiamenti nelle loro vite.
La loro legittima ansietà ha spinto Jacques Delors ad affermare che il punto di vista delle persone comuni dovrà in futuro essere considerato con più attenzione.
Avrebbe potuto pensarci prima.

Sebbene io sia favorevole al compimento di passi verso una maggiore integrazione politica in Europa, penso che le proposte di Maastricht, per come sono state formulate, siano seriamente difettose, e anche che il dibattito su di esse sia stato curiosamente reso povero.
Con il rifiuto della Danimarca di aderire, la quasi sconfitta nel referendum in Francia e la messa in discussione della stessa esistenza del Sistema Monetario Europeo dopo le enormi perdite subite sui mercati valutari, è questo un buon momento per una valutazione.

L’idea centrale del Trattato di Maastricht è che i paesi della Comunità Europea dovrebbero muoversi verso una unione economica e monetaria, con una moneta unica gestita da una banca centrale indipendente.
Ma come deve essere condotto il resto della politica economica?
Dal momento che il trattato non prevede nessun’altra istituzione oltre alla banca centrale europea, i suoi sostenitori devono supporre che non sia necessario nient’altro.
Ma questo potrebbe essere corretto solo se le economie moderne fossero dei sistemi che si regolano autonomamente e che non richiedono alcun tipo di gestione.

Sono giunto alla conclusione che questo punto di vista - che le economie siano organismi che si regolano autonomamente e che non richiedono mai, in nessuna circostanza, una gestione di un qualsiasi tipo - abbia davvero determinato il modo in cui il Trattato di Maastricht è stato strutturato.
Si tratta di una versione rozza ed estrema di quel punto di vista che da qualche tempo costituisce l’opinione prevalente in Europa (ma non negli Stati Uniti o in Giappone) secondo la quale i governi sono incapaci, e perciò devono astenersi da qualunque tentativo, di raggiungere uno qualsiasi dei tradizionali obiettivi della politica economica, come la crescita e il pieno impiego.
Tutto quello che si può legittimamente fare, secondo questo punto di vista, è controllare l’offerta di moneta e mantenere il bilancio in pareggio.
E’ servito un gruppo composto principalmente da banchieri (il Comitato Delors) per raggiungere la conclusione che una banca centrale indipendente fosse l’unica istituzione sovranazionale necessaria per gestire una Europa integrata e sovranazionale.

Ma c’è molto di più oltre a tutto questo.
E’ necessario mettere in evidenza innanzitutto che l’istituzione di una moneta unica nella Comunità Europea provocherebbe certamente la fine della sovranità degli Stati aderenti e del loro potere di intervenire autonomamente per affrontare le questioni più rilevanti.
Come Tim Cogdon ha argomentato in modo molto valido, il potere di emettere la propria moneta, di ottenere delle anticipazioni dalla propria banca centrale, è la principale caratteristica della indipendenza nazionale.
Se una nazione cede o perde questo potere, acquisisce lo status di una autorità locale o di una colonia.
Le autorità locali e le regioni ovviamente non possono svalutare. Non solo sono prive del potere di finanziare i loro deficit con la creazione di moneta ma anche gli altri metodi che potrebbero impiegare per finanziarsi sono soggetti alla regolamentazione centrale. Né esse possono modificare i tassi di interesse.
Poiché le autorità locali non possono utilizzare nessuno degli strumenti di una politica macroeconomica, le loro scelte politiche sono limitate a questioni di minore rilevanza - un po’ più di istruzione qui, un po’ meno di infrastrutture là.
Ritengo che quando Jacques Delors getta nuova enfasi sul principio di “sussidiarietà” egli stia in realtà dicendoci solo che ci sarà consentito di decidere su un numero di questioni relativamente secondarie molto più grande di quanto potessimo aver pensato in precedenza. Forse ci consentirà di avere cetrioli ricurvi, dopotutto. Grande affare!

Mi sia consentito di esprimere un punto di vista diverso.
Penso che il governo centrale di un qualsiasi Stato sovrano debba impegnarsi a tempo pieno per determinare il livello totale ottimale della spesa pubblica, il carico fiscale totale corretto, la corretta allocazione della spesa totale tra le diverse necessità concorrenti e la giusta distribuzione del carico fiscale.
Il governo centrale deve anche determinare fino a che punto una qualsiasi differenza tra la spesa e la tassazione sia finanziata con un’anticipazione della banca centrale e quanto sia finanziata con l’indebitamento e a quali condizioni.
Il modo in cui i governi decidono su tutte queste (e su alcune altre) questioni, e la qualità della leadership che possono esprimere, interagendo con le decisioni dei singoli individui, delle imprese e degli stranieri, determinerà cose come i tassi di interesse, il tasso di cambio, il tasso di inflazione, il tasso di crescita e il tasso di disoccupazione. Influenzerà anche profondamente la distribuzione del reddito e della ricchezza non solo tra i singoli individui ma anche tra intere regioni, dando assistenza, si spera, a chi sia danneggiato da cambiamenti strutturali.

Quasi nulla di semplice si può dire su come questi strumenti, con tutte le loro interdipendenze, debbano essere impiegati per promuovere il benessere di una nazione e anche per proteggerlo, ad esempio dagli shock di varia natura ai quali inevitabilmente sarà esposto.
Ha solo un significato limitato, ad esempio, dire che il bilancio deve sempre essere in pareggio quando un bilancio in pareggio con spesa e tassazione entrambe al 40 per cento del Prodotto Interno Lordo avrebbe un impatto completamente diverso (e molto più espansivo) rispetto a un bilancio in pareggio al 10 per cento.
Per immaginare la complessità e l’importanza delle decisioni macroeconomiche del governo è sufficiente domandarsi quale sarebbe la risposta adeguata, nei termini della politica fiscale, monetaria e del tasso di cambio, per un paese che produca grandi quantità di petrolio, quando il prezzo del petrolio aumenti di tre volte. Sarebbe giusto non fare assolutamente nulla?
E non deve mai essere dimenticato che in periodi di gravissima crisi, può anche essere appropriato per il governo centrale il peccare contro il mostro sacro di tutte le banche centrali e invocare la “tassa dell’inflazione” - in modo tale da appropriarsi deliberatamente di risorse riducendo, con la tassa dell’inflazione, il valore reale della ricchezza di carta della nazione. Fu dopotutto proprio per mezzo della tassa dell’inflazione che secondo Keynes avremmo dovuto pagare le spese necessarie per la guerra.

Ripeto tutto questo per suggerire non che la sovranità non deve essere sacrificata per la nobile causa della integrazione europea ma che se i singoli governi rinunciano a tutte queste funzioni allora esse devono semplicemente essere assunte da qualche altra autorità.
La incredibile lacuna nel programma di Maastricht è che mentre prevede nel dettaglio l’istituzione e le modalità operative di una banca centrale indipendente invece non prevede nulla di analogo, nei termini della Comunità Europea, a proposito di un governo centrale.
Eppure semplicemente dovrebbe esserci un sistema di istituzioni a livello comunitario che assuma tutte queste funzioni che oggi sono esercitate dai governi centrali dei singoli paesi membri.

La contropartita del sacrificio della sovranità deve essere la costituzione di una federazione dei paesi aderenti alla quale essi affidino la loro sovranità.
E il sistema federale, o governo, come sarebbe stato meglio chiamarlo, dovrebbe esercitare tutte quelle funzioni che ho brevemente richiamato sopra sia verso i paesi membri che verso il mondo esterno.

Si considerino due importanti esempi di quello che un governo federale, responsabile di un bilancio federale, dovrebbe fare.

I paesi europei sono attualmente intrappolati in una recessione severa. Per come stanno le cose, in modo particolare dato che anche le economie degli Stati Uniti e del Giappone si stanno indebolendo, non è affatto chiaro quando una ripresa significativa potrà iniziare.
Le implicazioni politiche di questa situazione stanno diventando spaventose.
Eppure l’interdipendenza tra le economie europee è già così grande che nessun singolo paese, con l’eccezione teorica della Germania, si sente in grado di avviare politiche espansive autonomamente perché qualunque paese cercasse di espandere la sua economia da solo incontrerebbe ben presto un vincolo nella bilancia dei pagamenti.
La situazione corrente sta reclamando a gran voce un intervento coordinato di reflazione ma non esistono né le istituzioni né una struttura di pensiero condivisa che possano condurre a questo risultato desiderabile.
Deve essere francamente riconosciuto che se la depressione dovesse davvero prendere una seria piega negativa - ad esempio se il tasso di disoccupazione dovesse di nuovo salire permanentemente a quel 20-25 per cento caratteristico degli anni Trenta - i singoli paesi presto o tardi eserciterebbero il loro diritto sovrano a dichiarare l’intero movimento verso l’integrazione europea un disastro e ricorrerebbero a misure di controllo degli scambi e protezionistiche - un’economia da stato di assedio se si vuole. Questo corrisponderebbe a un ritorno alla condizione del periodo tra le due guerre mondiali.

Se ci fosse una unione economica e monetaria, nella quale il potere dei singoli governi di agire indipendentemente fosse davvero stato abolito, una reflazione “coordinata” del tipo di quella che oggi è così urgentemente necessaria potrebbe essere adottata solo da un governo federale europeo.
Senza una tale istituzione l’unione economica e monetaria europea impedirebbe ai singoli paesi di adottare azioni efficaci senza offrire nulla in cambio.

Un altro importante ruolo che ogni governo centrale deve assumere è quello di garantire un livello minimo di mezzi di sussistenza alle regioni del paese che sono in difficoltà per ragioni strutturali - a causa del declino di un settore industriale, ad esempio, o per un mutamento demografico negativo dal punto di vista economico.
Oggi questo avviene nel corso naturale degli eventi, senza che qualcuno lo noti davvero, grazie a standard comuni nei servizi pubblici (ad esempio sanità, istruzione, pensioni e ammortizzatori sociali) e a un comune (e, si spera, progressivo) carico fiscale, entrambi generalmente istituiti in tutti i paesi europei.
Di conseguenza, se una regione soffre un grado di declino strutturale non usuale, il sistema fiscale automaticamente genera dei trasferimenti netti a suo favore.
Estremizzando, una regione che non potesse produrre nulla non soffrirebbe la fame perché riceverebbe pensioni, benefici per i disoccupati e i redditi degli impiegati pubblici.

Che cosa accade se un intero paese - una potenziale “regione” di una comunità europea pienamente integrata - soffre un declino strutturale?
Finché è uno Stato sovrano, può svalutare la sua moneta in modo tale da commerciare con successo in una condizione di pieno impiego purché il suo popolo accetti la necessaria diminuzione dei salari reali.
Con una unione economica e monetaria questo rimedio è ovviamente impedito e le prospettive del paese sono davvero gravi a meno che non siano stati stabiliti degli accordi per un bilancio federale che svolga una funzione ridistributiva tra i diversi paesi.
Come venne chiaramente riconosciuto dal Rapporto MacDougall pubblicato nel 1977, ci deve essere uno scambio con il quale la rinuncia all’opzione della svalutazione sia compensata da una ridistribuzione fiscale tra paesi.

Alcuni autori (come Samuel Brittan e Sir Douglas Hague) hanno suggerito seriamente che l’unione economica e monetaria, abolendo il problema della bilancia dei pagamenti nella forma in cui si presenta oggi, abolirebbe certamente il problema, sempre che esista, di una persistente incapacità di competere con successo nei mercati mondiali.
Ma come il professor Martin Feldstein ha evidenziato in un importante articolo sull’Economist (13 giugno), questo argomento è davvero particolarmente errato.
Se un paese o una regione non ha il potere di svalutare, e se non è il beneficiario di un sistema fiscale di compensazione, allora non c’è nulla che possa impedire che esso soffra un processo di declino cumulativo estremo che porterà, alla fine, all’emigrazione come unica alternativa alla povertà o alla fame.

Io simpatizzo con la posizione di coloro (come Margaret Thatcher) che, posti di fronte alla perdita di sovranità, tutto considerato desiderano scendere dal treno dell’unione monetaria.
Simpatizzo anche con coloro che desiderano una integrazione sotto la giurisdizione di un qualche tipo di costituzione federale con un bilancio federale molto più ampio di quello dell’attuale Comunità Europea.
Quella che io trovo totalmente confusa e incomprensibile è la posizione di coloro che mirano all’unione economica e monetaria senza la creazione di nuove istituzioni politiche (tranne la nuova banca centrale) e che si schermiscono con grande orrore alle parole “federale“ e “federalismo”.
Questa è la posizione attuale del Governo e della massima parte di coloro che partecipano alla discussione pubblica.


[FINE]


2 commenti:

  1. Ciao!! ho appena scoperto il tuo Blog!! lo inserisco tra le fonti da studiare.
    Una domanda: ma come mai te, Bagnai e Di Cori Modigliani avete tutti la stessa grafica? (una curiosità!!)
    buon lavoro!!

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    1. Grazie! :)
      Ho ripreso la grafica di Goofynomics perché mi sembra la più riposante per la lettura e perché mi ricorda questa canzone :)

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